di Dario Russo
Fu Diego Cajelli, quando studiavo ancora sceneggiatura alla Scuola del fumetto di Milano, a dare a tutti noi la prima dritta. Oggi Cajelli (citato già nel precedente articolo Scelte sbagliate dedicato a Marcello e Antonio Tettamanti) vanta un curriculum da sceneggiatore di tutto rispetto. A quel tempo andava in voga l’horror, lo splatter, e riviste come Bloob e Scanners, ambedue della Ediperiodici (che facevano concorrenza ai ben più noti Splatter e Mostri della Edizioni Acme, quest’ultimo con le copertine di Sicomoro) facevano capo ad un’agenzia di Milano chiamata Tao che all’epoca era situata a Porta Genova, a due passi dalla nostra scuola.
C’è chi lo snobbò, il povero Cajelli, senza capire che da qualche parte bisognava pur cominciare a mettere le mani in pasta. Ma io, appassionato di quelle riviste a fumetti, mi diressi alla Tao presentando alcune mie sceneggiature di mistery e horror tratte da quei racconti rimasti scritti a penna su dei fogli volanti. Il racconto su cui puntavo molto era Mi scusi, non volevo che oggi fa parte della mole di racconti horror e thriller in Disturbi di sangue, edito dalla Creampie Me Press. Ma era troppo edulcorato, a dirla loro, e mi proposero di sostituire la pistola con un coltello, seguito da una fuoriuscita di “fegatini” (lo splatter). Non fui d’accordo. Presto i nostri rapporti s’incrinarono, e tutto tramontò con un nulla di fatto.
A distanza di tempo mi resi conto di aver perso la mia prima occasione.
E forse fu anche questo che mi indusse poi a mollare Milano per Bologna.
Sta di fatto che questo cambiamento di città mi portò anche ad un cambiamento di vita. Lasciai perdere le sceneggiature, i racconti e tutto, per dedicarmi alla ricerca di una partner da “trasformare” in moglie e mettere su famiglia. Rincorrevo la strada del sesso, per dirla breve. Un buco lungo sette anni, e soltanto quando mi venne incontro un periodo di estrema solitudine e calma piatta, trovai sfogo nel riordinare e battere al computer (qualcosa di più comodo di una Lettera 22 della Olivetti) tutti quei racconti scritti su una moltitudine di fogli negli anni addietro, e di dare alle stampe in qualche esemplare quello che oggi trovate nel catalogo della Creampie Me Press, Disturbi di sangue.
L’entusiasmo fu tanto, ma anche l’oblio che ne seguì subito dopo.
Era il 1998. Seguirono altri quattro anni di vuoto, per poi avere una ripubblicazione nel 2002, anno in cui mi capitò di vedere in Tv, in tarda serata, quel film che da anni non avevo più visto, quasi dimenticato.
Ancora non mi ero trasferito a Malabergo.
Che la cascina di quel film firmato Pupi Avati del ‘76, La casa dalle finestre che ridono, abbattuta poi nel ’78, sorgeva dove poi furono costruite le palazzine dove andai ad abitare, lo scoprii soltanto dopo. Intanto rivedere quel film aveva riacceso in me la passione per il cinema e del filmmaking. Mi feci prestare una telecamera. Intanto dal vecchio analogico eravamo passati al digitale. Mi infilai nel giro dei professionisti di Bologna, recuperai un nuovo computer dove potei installare il programma di montaggio, una versione obsoleta dell’attuale Abobe Premiere, e scelsi Agofobia, un racconto tratto da Disturbi di sangue che concettualmente si avvicinava al film di Pupi Avati. Scrissi la sceneggiatura, chiesi a qualche collega di interpretare i ruoli secondari (il protagonista scelsi di interpretarlo io, questa volta però anche per indole).
Per essere la mia seconda esperienza da regista a circa quindici anni di distanza dalla prima, devo dire di essermela cavata piuttosto bene. Ma ero molto lontano da tirar fuori un lungometraggio. Il film durava appena venti minuti. E non avevo altre idee.
Un film che non avevo ancora visto e mi incuriosiva, dove pubblico e critica erano praticamente divisi a metà, The Blair witch project del 1999, mi diede l’illuminazione. Scrissi una seconda storia che viaggiava in parallelo in un’epoca susseguente alla prima. Il film già girato rappresentava una sorta di flashback a quello che mi apprestavo a girare che rappresentava il tempo presente, con inquadrature da cinegiornale, sotterfugio chiaramente preso in prestito da The Blair witch project.
L’idea non fu malvagia, ma mal realizzata. E con questo espediente il film durava poco meno di un’ora. Ancora non avevo raggiunto il mio obiettivo. Nonostante gli sforzi, non fui soddisfatto dei risultati. Non era male. Qualcosa c’era in quello che avevo realizzato, ma…I film degli altri filmmaker erano di gran lunga migliori.
Imovilli (questo è il suo titolo, nome ipotetico di un paese di campagna dove gli eventi ne facevano capo) è quello che si suol definire il film maledetto, il film che non vedrete mai, almeno per ora, firmato con lo pseudonimo di Marc Innato (chissà perché scelsi questo nomignolo rielaborato dal nome di un noto corrispondente Rai, Marc Innaro).
Imovilli però fa sempre parte dei miei ricordi, della mia vita da filmmaker, insieme ad altre realizzazioni che hanno avuto miglior sorte.
Non ripeterò mai più l’errore che feci con Che succede in quella casa?, cestinarlo e cancellarlo per sempre dalla mia mente per pura e semplice rabbia.