di Dario Russo
Se con MammaDalla69, alle mie antitesi, ho sbucciato quella parte della mia vita intima rendendola in parte pubblica, con Dario Russo mi approccio a dirvi qualcosa dal profondo del cuore e dello stomaco. Un po’ come in Over up e Over down, due mie sceneggiature già in catalogo della Creampie Me Press. Ma di loro vi parlerò in un’altra occasione.
Con questo mio primo articolo voglio rivelarvi un lato di me che è descritto ampiamente ne I miei primi 50 anni – Tutte le sceneggiature, sempre per la Creampie Me Press: gli albori di una passione che non si è mai spenta.
Se dovessi dirvi qual è stato il primo film horror che vidi, vi direi una bugia perché ancor’oggi non mi sovviene. Ma ricordo perfettamente quale fu il primo a non farmi dormire la notte. Se Frankenstein, Dracula, L’uomo lupo e zombi vari non riuscirono a far breccia nel mio stomaco e continuavo a dormire sogni beati, I tre volti della paura, capolavoro di Mario Bava del 1963, conosciuto anche come Black sabbath mi divorò a soli 11 anni. Per la precisione era il terzo episodio che mi terrorizzava, La goccia d’acqua. Il pupazzo dell’anziana signora improvvisamente morta, rialzatasi e che camminava senza muovere le gambe (perché trainato da un carrello, vecchio escamotage dell’epoca), pronta a strozzarmi con le sue braccia già protese in avanti, valeva molto di più di tutti quei mostri, prototipi di una cultura americana, bella sì ma elettrizzante per altri motivi.
Quello che cercavo in un film horror e nei thriller era l’angoscia. L’angoscia doveva costringermi ad un dormiveglia.
I tre volti della paura aleggia nella mia collezione privata, e ciclicamente lo rivedo provando quasi la stessa emozione di quand’ero ragazzetto.
All’epoca non esisteva internet, e se non possedevi un proiettore Super8, film a casa non potevi vederne. La mia era una famiglia modesta di tre figli, ed con il solo stipendio di mio padre. Difficile affrontare la spesa di un proiettore. Così per rivedere un film, dovevo aspettare che lo ridavano in Tv, la nostra cara vecchia Tv in bianco e nero. Quando sostituimmo la vecchia carcassa (che finalmente si ruppe) con una a colori, potei rivedere lo stesso film a colori.
Avevo 12 anni e su Rai 2 davano il ciclo Horror all’italiana. I tre volti della paura fu il penultimo di una serie di otto film. E l’ottavo film fu il secondo che mi ridiede l’emozione di un’angoscia più marcata. Non sapevo neanche che esistesse un regista di nome Pupi Avati. A quel tempo conoscevo appunto Mario Bava, Dario Argento di cui avevo già visto L’uccello dalle piume di cristallo e Il gatto a nove code, Joe D’Amato con Antropophagus ed in seguito Buio omega, e qualche regista americano. Non sapevo di Pupi Avati ed il suo La casa dalle finestre che ridono datato 1976. Un capolavoro di orrore padano, un capolavoro dell’angoscia. La mia.
Ed anche questo film è entrato a far parte della mia collezione.
Non ho l’abitudine di collezionare tutti (o quasi tutti) i film che vedo. Al contrario: la mia cerchia è ben ristretta. Soltanto quelli che mi fanno rivivere l’eterna angoscia di cui ho bisogno per continuare a scrivere le mie sceneggiature hanno diritto d’accesso. La mia collezione non è composta solo da film horror: western, drammatici, love story: qualsiasi sia il genere basta che non infici le mie emozioni. E, diversamente da come qualcuno possa ipotizzare, non sono tanti.
In età adulta, a 32 anni per la precisione, dopo circa un decennio che vivevo a Bologna per motivi di lavoro, pensando di dover piantar radici da qualche parte, pensai di acquistare casa. Impermissibile in città, guardai in provincia e nell’hinterland. L’occasione la trovai a Malalbergo, ultima provincia del bolognese verso Ferrara, a circa 30 chilometri dal capoluogo. E soltanto dopo venni a sapere che le palazzine dove avevo acquistato il mio appartamento sorgevano su quell’altura dove nel 1978 fu abbattuta una vecchia cascina, la vecchia cascina de La casa dalle finestre che ridono.
Come si suol dire: l’assassino torna sempre sul luogo del delitto.